Migliaia di Frammenti di Luce è il titolo che Luframilia ha scelto per il suo album d’esordio come solista. Un disco frutto del lavoro di anni che vede finalmente il suo coronamento con l’uscita il 20 novembre.
C’è parecchio da “spacchettare” nel disco di Luframilia: alcuni brani come Resisto e Non Combatto, Caos e Gravitazionale, hanno un piglio tipicamente punk rock, un po’ come se fossero stati scritti sulla costa californiana invece che su quella ionica; altrove l’artista adotta melodie più ariose e malleabili come nell’alternative rock di ROAC.
Nel Vuoto e L’Eremita Postmoderno; spazio anche per qualche ballad che aiuta a decomprimere la tensione (Viaggio nel Tempo, Amori Telecinetici), senza rinunciare a una canzone di denuncia quale Non Pulite Questo Sangue.
Ecco cosa racconta l’artista a proposito dell’album!

Ciao, Davide! Ci racconti un po’ il processo di registrazione del tuo album?
Ciao, certo! Sono partito qualche anno fa rendendomi conto di aver scritto più di venti brani, che volevo cercare di convogliare su un unico album, e alla fine ho scelto le quattordici tracce che sentivo più necessarie da produrre e far uscire.
Ho condiviso le bozze e idee dei brani col mio sound e mix engineer di fiducia, Alessio Mauro, e abbiamo prima registrato le batterie, in cui si è messo direttamente lui dietro le pelli, poi le chitarre, poi le parti di basso, dove mi ha dato una grande mano un mio caro amico Gianluca Costa.
In seguito siamo passati alle keybords varie, per rendere più profondi tutti gli arrangiamenti, e infine a tutte le parti vocali. Potete anche ascoltare delle linee di archi registrati reali, sull’ultima canzone Apocalisse, eseguiti da una mia cara amica violinista, Alessia Marziani.
Alla fine sono fiero di dire che è uscito il disco che sognavo, quasi un concept album, carico al punto giusto, con tutti gli arrangiamenti dosati perfettamente, che rende tributo ai suoni musicali a me più cari!
C’è qualche aneddoto, curiosità accaduta durante le registrazioni che ti piacerebbe rivelare?
Beh, ci sarebbero tanti dettagli di cui parlare… ad esempio ci tengo a raccontare che tutto l’album è stato in gran parte lavorato seguendo già l’ordine della tracklist che trovate oggi, e questo ci ha dato la possibilità di lavorare canzone per canzone come se fosse un capitolo di qualcosa, e a ben collegarla con tutto il resto.
Ricordo che tutte le tracce vocali le abbiamo registrate in studio in piena notte, e spesso per riuscire a terminare la sessione arrivavamo sino alle 6 del mattino, e Alessio, il fonico, mi diceva “da mezzanotte in poi, come faceva Frank Sinatra!” e la cosa mi faceva pensare “Ok, dai, che figata!”
Sulla traccia L’Eremita Postmoderno potete ascoltare nella parte iniziale dei suoni che sembrano degli archi, ma in realtà sono delle note di chitarra suonate con un archetto da violino, alla Jimmy Page.
Abbiamo notato che la prima traccia del disco, Eclisse, nel titolo sembra collegata all’ultima traccia, Apocalisse. I due brani sono connessi?
Avevo scritto Apocalisse, e ho pensato subito che fosse il giusto mantra per il finale dell’album.
Poi avevo già predisposto un piccolissimo intro strumentale all’inizio del disco, e volevo fosse separato da tutto come una traccia a sé, e quindi aveva bisogno di un titolo, e mi è venuto in mente Eclisse.
Ho pensato che fosse in assonanza perfetta con l’ultima canzone, e che questi due titoli rappresentassero i poli estremi che stavo cercando, il giusto dualismo, l’esatta metafora, tra cui far srotolare in mezzo tutte le altre sfumature.
Il termine eclisse viene dal verbo greco “ekleipo” (mancare, nascondersi), e il termine apocalisse sempre dal greco “apocalypto” (togliere il velo, rivelare), metafore a dir poco perfette per un principio di buio e dubbi, e un finale più di luce e speranza.
Che tipo di sound e di concetto sonoro avevi in mente quando hai iniziato a scrivere il disco?
Volevo un suono compatto, a tratti corale e potente, ma che potesse lasciare spazio a momenti anche più intimi e confidenziali.
Volevo che fosse principalmente suonato dai tipici tre strumenti del simple rock: chitarra, basso e batteria; poi in corso d’opera abbiamo pensato di aggiungere altri piccoli dettagli, a volte così ben inseriti nel mix da essere poco percettibili, come linee di piano, suoni di organi, effetti vari, ma credetemi, qualcosa di fondamentale per dare più apertura e profondità in certi punti.
L’occasione era quella di creare un mix molto “americanoso”, i rullanti belli avanti e presenti, power chord massicci, ma che la fusione con la lingua italiana e certe dinamiche più autoriali rendessero “diverso”.
Ho cercato di fare il tipo di musica che mi piacerebbe ascoltare, e a oggi sono veramente soddisfatto di come suona!
Se potessi tornare indietro, cambieresti qualcosa nella scrittura del disco o in un’altra parte del processo di release?
Forse mi sarebbe piaciuto riuscire a pubblicarlo prima che arrivasse questa pandemia, per avere un po’ più di opportunità di fare pratica con la band e promuoverlo dal vivo.
Ma alla fine è capitato così, ci trovo anche un certo significato, anche perché nonostante sia un disco a tratti molto cupo, cerca di andare verso dei frammenti di luce di speranza, e questa penso sia un’interessante opportunità: raccontare i nostri animi interiori, imperfetti e pieni di contrasti, e a volte far riflettere, e sperare nonostante tutto.
Dicci una cosa che non ti piace proprio del panorama musicale attuale e un’altra che ti piace invece!
Non mi voglio mettere a dire la solita menata delle difficoltà di suonare dal vivo. Quello di cui mi sto accorgendo sempre di più invece, e che mi intimorisce un po’, è vedere le persone che non riescono più a prestare per bene attenzione, nemmeno alle cose che vogliono, e mi ci metto pure io in mezzo.
Non si riesce nemmeno più ad ascoltare un brano di 4 minuti, perché risultano troppi; siamo bombardati di cose da fare a portata di click e scroll in continuazione, e in più mettici i nostri impegni e problemi quotidiani… un caos!
Questo non mi piace molto, non era così dieci anni fa se ci pensi, e lo trovo triste per l’arte in generale, che ha bisogno di una fruizione senza limiti a parer mio… quindici secondi non bastano in verità, e che cavolo!
Una cosa che invece però mi ha sorpreso negli ultimi anni, e che mi ha fatto piacere e motivato, è questa nuova ondata molto “do it yourself”, in cui hai davvero l’opportunità di andare avanti con i brani scritti e cantati dalla tua cameretta, dove essere (indi)pendenti sta risuonando come la nuova moda.
Osservare un festival molto artefatto e gonfiato come Sanremo selezionare quest’anno per la maggior parte tutti quei nomi indie da canzoni da stanzetta fa comunque riflettere verso quello che sta crescendo e si sta evolvendo.
La frase che dovrebbe risuonare a tutti in testa, in questo momento come non mai, è “puoi farlo anche tu!”